Per ora i ricercatori dell’Università di Torino, finanziati da Theleton, hanno solo scoperto come la malattia viene innescata, ma secondo gli esperti questo è il primo passo essenziale nel percorso verso la cura e lo sviluppo di strategie terapeutiche mirate. Lo studio su Cell.
La distrofia del cristallino di Schnyder è una rara forma di cecità genetica, dovuta al deposito di colesterolo e fosfolipidi a livello della cornea: l’accumulo di sostanze lipidiche porta a una graduale opacizzazione dell’occhio e alla progressiva diminuzione dell’acuità visiva, fino alla cecità. Ad oggi non esiste una terapia risolutiva per il difetto, causato da un’alterazione nel gene UBIAD 1. Tuttavia, una scoperta importante su come le nostre cellule rispondono ai danni indotti dal metabolismo dell’ossigeno, effettuata dai ricercatori del Centro di biotecnologie molecolari dell’Università di Torino e finanziata da Theleton potrebbe oggi portare nuove speranze ai pazienti affetti da questa malattia, che si manifesta sempre in età piuttosto giovane, entro i 40 anni. Lo studio ha meritato la pubblicazione sulle pagine della rivista Cell.
“Dai colleghi clinici sapevamo soltanto che persone affette da distrofia di Schnyder – circa un centinaio i casi noti finora – vanno incontro all’accumulo progressivo di colesterolo e lipidi a livello del cristallino, la lente presente nell’occhio, che a poco a poco diventa opaca alla luce impedendo in ultima analisi la visione”, ha spiegato Massimo Santoro, co-autore dello studio. “Siamo partiti dall’osservazione che uno stesso gene, chiamato UBIAD 1, era difettoso sia in pazienti affetti da una rara malattia genetica dell’occhio, la distrofia del cristallino di Schnyder, sia in una variante mutata dello zebrafish, un pesce molto noto fra gli scienziati, che presentava difetti nello sviluppo cardiovascolare. Ci siamo quindi chiesti se questo “doppio riscontro” potesse aiutarci a capire la funzione del gene alterato in questi pazienti, fino a quel momento del tutto sconosciuta”.
Grazie a studi di biologia cellulare e molecolare, i ricercatori piemontesi sono riusciti a dimostrare come fisiologicamente il gene UBIAD 1 contenga le informazioni per un enzima deputato alla sintesi del coenzima Q10, una sostanza dal potere antiossidante presente in tutte le nostre cellule e ben nota al pubblico perché utilizzata anche nella composizione di creme anti-età proprio per questa sua proprietà. “L’unico enzima noto fino ad oggi come responsabile della produzione del coenzima Q10 si trova sui mitocondri, le centrali energetiche delle nostre cellule, ed è essenzialmente chiamato in causa nel corso delle attività metaboliche della cellula”, ha continuato il ricercatore. “Il nuovo enzima che abbiamo scoperto si trova invece in un altro comparto, l’apparato del Golgi, e sembra avere un ruolo nella protezione dei tessuti dallo stress ossidativo, ovvero dai radicali liberi prodotti dal metabolismo dell’ossigeno. Pur non essendo ancora chiaro come il difetto genetico si traduca nei sintomi osservati nei pazienti, questo risultato suggerisce che, il cristallino, uno dei tessuti umani più sensibili a questo tipo di stress, potrebbe effettivamente risentire di una protezione insufficiente da parte di UBIAD 1 andando così incontro all’accumulo di colesterolo e lipidi”. Inoltre, il gruppo di ricerca di Massimo Santoro ha dimostrato come UBIAD1 e COQ10 proteggano il sistema cardiovascolare, e quindi anche l’occhio dai danni insorti dall’uso di statine, come appunto lo stress ossidativo.
Chiarire la funzione di un gene-malattia è un passo essenziale nel percorso verso la cura: soltanto conoscendone il ruolo all’interno della vita della cellula è possibile infatti disegnare delle strategie terapeutiche mirate. “Ci sono ancora molte domande aperte, tra cui per esempio, come mai l’accumulo di grassi e lipidi si osserva soltanto nell’occhio e non in altri tessuti “, ha concluso Santoro. “Inoltre siamo interessati a chiarire come questo gene sia coinvolto nello sviluppo del sistema cardiovascolare, visto che la sua assenza non è compatibile con la vita e visto anche quanto è conservato a livello evolutivo. Ad ogni modo questo lavoro dimostra ancora una volta come studiare le malattie genetiche rare sia importante anche per chiarire meccanismi biologici fondamentali e sia in grado di aprire pagine insospettate della nostra conoscenza”.
Fonte: quotidianosanita.it